La vita

La vita

Si ritiene che San Calogero sia vissuto fra la seconda metà del V e la prima metà del VI secolo dopo Cristo. Calogero, è sicuramente il suo nome proprio, che come è noto, risale al neogreco composto dalle parole: “Καλòς“, “bello”, e “Γέρων “, “vecchio” con il significato letterale di “bel vecchio”, ma che in effetti sottintende un augurio: “Che sia felice nella sua vecchiaia”.
Il nome Calogero divenne poi, nelle zone di lingua greca della Sicilia e del Sud Italia, appellativo rivolto ai monaci di rito bizantino, a prescindere dall’età e ai monaci eremiti, che solitari vivevano asceticamente nelle grotte, affermandosi per la santa vita e le buone opere di fronte alle popolazioni che si convertivano al Cristianesimo.
Anche C. Diehl, lo storico della civiltà bizantina, scrive che in Sicilia ed in Italia meridionale «i più attivi propagatori dell’ellenismo furono i monaci. In tutta l’Italia del Sud furono fondati una quantità di istituti monastici tenuti da monaci greci la cui infaticabile propaganda si estese fino in Campania, fino alle porte di Roma stessa. Intorno ai loro conventi, alle loro cappelle, ai loro eremitaggi, le popolazioni si raccoglievano. Così la lingua, il rito, la civiltà di Bisanzio si sono diffuse in Italia. I monaci esercitavano un influsso profondo sul popolo. I poteri miracolosi, lo spirito profetico conferivano loro un prestigio straordinario. Per la direzione che esercitavano sulle coscienze e per le opere di beneficenza nate intorno ai monasteri, i monaci erano estremamente popolari».
Per questo motivo, erroneamente si è parlato della presenza in Sicilia di più Calogeri, da intendere invece, come monaci greci, mentre si deve parlare di unicità per quanto riguarda il nostro San Calogero.
Ritornando a San Calogero, sempre a quanto ci tramanda la tradizione, si ritiene che sia nato nell’anno 466 d.C. ed a quanto ci dice il monaco Sergio, a Calcedonia, antica città sul Bosforo in Asia Minore, dirimpetto a Costantinopoli, oggi divenuta il quartiere Kadiköy a sud-est di Istanbul in Turchia.

I Gesuiti siciliani del 16°-17° secolo, con in testa padre Ottavio Gaetani nella «Vitae Sanctorum Siculorum» del 1657, confusero Calcedonia con Cartagine. Il Padre Daniel Papebroech S.J., nel 1743, condizionò con una cattiva traduzione i manoscritti in Acta Sanctorum, Junii III, pp. 598-600, e anziché, óσ o óσ “Calcedonia” trascrisse ησ “Cartagine” e fecero di San Calogero un africano, allo scopo di presentarlo come monaco latino=cattolico, con il risultato che, dal 17°-18° secolo, San Calogero è rappresentato di colore nero, caratteristica della maggior parte delle statue esistenti del Santo.

La più antica raffigurazione di San Calogero a noi pervenuta è un trittico del Duca della Verdura, datato 1486 e così detto dal precedente proprietario, conservato presso la Galleria Regionale della Sicilia Palazzo Abatellis a Palermo, dove sono raffigurati al centro la Madonna su un trono, con il Bambino tra gli Angeli, Sant’Agata e Santa Lucia in piedi, in primo piano seduti due Santi, a destra San Giuseppe ed a sinistra San Calogero, negli sportelli i santi Cristoforo e Domenico sul recto, i Santi Sebastiano e Biagio sul verso. Dal capo del Santo un velo, come quello degli ortodossi, scende dietro le spalle coperte da un mantello che gli si apre sul petto; sul ginocchio sinistro poggiano le zampe della cerva che egli benedice con la destra, mentre con la sinistra, cerca di estrarle dal collo la freccia che l’aveva ferita, in basso inginocchiato il cacciatore, in piccolo ed al centro. Il volto di San Calogero è ornato da una lunga barba bianca, è atteggiato a compassione e affetto verso la cerva che quasi sembra invocare il suo aiuto. Il quadro in basso reca la scritta Thomasus de Vigilia Panormitanus pinxit anno 1486 (Tommaso de Vigilia palermitano dipinse nell’anno 1486).
Qualsiasi copia della biografia di San Calogero è andata perduta, sorte comune alle Vite di moltissimi santi ortodossi dell’Italia meridionale ed insulare. Tra le varie ipotesi, il Borsari scrive: «Sappiamo da varie fonti che nell’Italia meridionale bizantina furono oggetto di culto molti santi della cui vita non ci è giunta alcuna narrazione che pure, verosimilmente, dové esistere; e la ragione di questo fatto è abbastanza evidente. Il culto di un santo monaco era strettamente legato al monastero da lui fondato o illustrato dalla sua virtù, e molto raramente si estendeva oltre i confini di questa comunità e dei paesi circostanti. La decadenza o la scomparsa di questo monastero facevano spesso scomparire, anche materialmente, qualsiasi traccia del culto del santo e anche la narrazione della sua vita andava perduta, a meno che il manoscritto in cui essa era contenuta, non giungesse, per una serie di circostanze eccezionali, in qualche monastero, magari assai lontano. Ciò spiega perché conosciamo tra i monaci siciliani, solo quelli che emigrarono in Calabria o, in genere nell’Italia meridionale; per coloro che vissero e morirono in Sicilia, la loro memoria fu legata alla sorte di qualche monastero isolano, successivamente distrutto dai Musulmani o costretto a vivere una vita grama sotto il loro dominio, per cui, quando i Normanni riconquistarono l’isola, il loro ricordo era completamente scomparso».
Secondo la tradizione, si parla di genitori pii ed onesti, di nazionalità greca, capaci di impartire un’educazione profondamente cristiana. La guida di un dotto sacerdote lo condusse nello studio assiduo delle Sacre Scritture. Crebbe alieno dai trastulli della sua età, amante del raccoglimento e della preghiera. Amò la solitudine della casa paterna, prediligendone gli angoli più remoti, dove s’immergeva nell’amorosa meditazione della Passione di Gesù. Poi, non ancora ventenne, nel fiore della giovinezza, quando gli sorrideva la vita, bramoso solo di perfezione, abbandonò tutto e si ritirò nel deserto. Dio lo attirava col suo amore. Erano molti gli eremiti, in quei tempi: uomini d’ogni ceto e condizione, che conquistati dall’ideale evangelico di perfezione, abbandonavano la compagnia degli uomini, per cercare unicamente quella di Dio.
Calogero abbracciò questo genere di vita, favorito dal silenzio solenne della natura. Gli era facile immergersi nell’infinito. Dio lo formava alla santità ed all’apostolato, fino a che lo richiamò in mezzo agli uomini.
Secondo l’innografia del monaco Sergio, vissuto nel IX secolo, lo troviamo in viaggio verso l’Italia coi due compagni: Gregorio e Demetrio, ed un certo numero di cristiani, che lasciano il proprio paese, o perché non possono più professare la loro fede cattolica nella SS. Trinità, al tempo dello scisma di Acacio, Patriarca di Costantinopoli (460-482), o perché desiderosi di diffondere la fede, portandola a chi ne era privo.
Calogero dimorò
alcuni anni a Roma.
Al Vicario di Cristo, Papa Felice II (483-492), espose il suo genere di vita. Chiese ed ottenne l’abito monacale, la consacrazione sacerdotale. Dallo stesso Pontefice fu mandato ad evangelizzare le terre della Sicilia.
Si imbarcò intorno all’anno 492 d.C., con i suoi compagni di fede, Gregorio e Demetrio. La prima tappa fu Lipari, una delle isole Eolie, a Nord della Sicilia. Difficoltà di viaggio lo costrinsero a fermarvisi: egli le considerò segno della Volontà di Dio ed egli vi si stabilì.
Il cratere dell’isola di Vulcano veniva considerato allora, come la bocca dell’Inferno, in cui bruciavano le anime dei reprobi. E’ nota la leggenda raccontata da San Gregorio Magno (540-604) dell’eremita Calogero che, il giorno stesso della morte di Teodorico (526), avrebbe visto l’anima del re goto gettata nel cratere dal papa Giovanni e dal patrizio Simmaco, che egli aveva fatto uccidere. Altre leggende fioriscono intorno all’Eremita che liberava l’isola dai diavoli e faceva sgorgare le acque salutari, che tuttora portano il suo nome.
Non perdette tempo, iniziò il lavoro con la fede ed il fervore dell’apostolo. Il seme gettato trovò buon terreno e fruttificò. La sua parola fu bene accolta e si formò una fervorosa comunità cristiana.
Infatti, già nel 495 i tre Santi, convertendo e predicando, riuscirono ad attirare un gran numero di persone, insieme alle quali costruirono un Cenobio a Fragalà nel Valdemone, sulle cui fondamenta, secondo una tradizione orale, nel 1090 verrà edificato, da parte del gran conte Ruggero, il Monastero di San Filippo.
Calogero tuttavia continuava a pensare alla terra che gli era stata affidata, la Sicilia.
Affidò la cura del nuovo gregge ai migliori discepoli e, coi fidi compagni Gregorio e Demetrio, riprese il viaggio, approdando a Lilibeo, l’odierna Marsala, città di mare, dedita al traffico ed al commercio, profondamente pagana nelle idee e nei costumi, la quale si mostrò subito ostile ai banditori del Vangelo, che si videro oggetto d’una fiera persecuzione.
I due santi compagni Gregorio vescovo e Demetrio diacono, incontrarono un crudelissimo martirio, Calogero, riservato da Dio alla salute d’innumerevoli anime, salvo miracolosamente, volse altrove i suoi passi, verso oriente, lungo il litorale.
Nell’anno 526 d. C., arrivò a Sciacca, la città che avrebbe amato come seconda patria, adagiata sulle rive del Mediterraneo, lambita dalle fresche acque e accarezzata quasi ininterrottamente dai zeffiri di ponente, incantevole per le bellezze naturali e famosa per le terme. La domina monte Kronio, un monte solitario. Calogero lo scelse come centro della sua missione evangelizzatrice, dopo averlo liberato dal dominio degli spiriti maligni che l’abitavano. Erano diventati l’incubo della popolazione, che, ormai sulla via della fede, si era rivolta al Santo, per ottenerne la protezione.
Venne Calogero, seguito da un numeroso stuolo di fedeli ed impose ai demoni, in nome di Dio, di lasciar libero quel luogo. Ed ecco il monte sussultò, urla orribili e disperate lacerarono l’aria, venti procellosi si scatenarono. Ma alla voce di Calogero, gli spiriti maligni scomparvero come per incanto ed il luogo divenne tranquillo asilo di pace.
Sulla selvaggia sommità, in una grotta, il Santo trovò il luogo ideale per la sua dimora, divenuta ben presto centro di irradiazione, da partiva per portare ovunque l’opera sua di evangelizzatore e a cui tornava in cerca di riposo e di quiete, per alimentare quella santità che rendeva tanto efficace la sua parola.
Non è facile seguirlo nel suo peregrinare da una grotta all’altra, nei suoi viaggi per l’Isola. Moltissime città e paesi conservano con amore i segni venerati del suo passaggio e ricambiano con una devozione vivissima l’incomparabile dono della fede. Basterebbe ricordare Salemi, Agrigento, Palermo, Catania, Fragalà, Siracusa, Termini Imerese, Licata, ecc..
Un posto di privilegio l’ebbe Naro
, la fulgentissima, città antica e ricca di storia. Il Santo si stabilì anche qui in una grotta fuori dell’abitato, quella che ancora oggi è oggetto di venerazione, e fu quella grotta testimone delle sue veglie, delle sue austerità, delle sue preghiere.
La nuda terra gli prestava il giaciglio, una fonte vicina l’acqua per dissetarsi e la carità il poco pane sufficiente per sopravvivere. Gli era facile unire la solitudine al lavoro apostolico. Infatti, a meno di un chilometro c’era la città, che raggiungeva, ammaestrava con la buona Novella, per poi tornare ai lunghi colloqui con Dio.
Agli inviati del Vangelo, Gesù aveva dato l’assicurazione: «Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno» (Mc 16, 17-18).
San Calogero fu apostolo e taumaturgo. Dio, che gli aveva assegnato il compito di predicare il Vangelo, non gli lasciò mancare la virtù di operare i miracoli. Nel nome di Gesù doveva dare alle anime la divina figliolanza, dopo averle liberate dalla schiavitù del peccato; doveva illuminarle con la luce della verità, dopo averle tolte dalle tenebre del paganesimo. Ebbene per rafforzare la fede dei novelli figli spirituali, Dio arricchiva la sua parola con numerosi prodigi: risanava gli infermi, dava la vista ai ciechi, l’udito ai sordi e, soprattutto, gli concedeva lo straordinario potere di scacciare dalle anime gli spiriti infernali.
A ragione cantava di lui nell’
akolouthia “ufficio liturgico”, alcuni secoli dopo la sua morte, il pio monaco Sergio: «Lo splendore dei suoi miracoli è fulgido come il sole, la sua fama è sparsa per tutto il mondo e continua a splendere perché nel suo tempio si perpetua la fonte delle guarigioni».
Fra gli aneddoti e i miracoli attribuiti a San Calogero, famoso perché viene riportato da tutti i suoi biografi, è l’episodio della cerva ferita, antica leggenda normanna. In essa si racconta che un giorno, mentre la cerva, del cui latte il Santo si alimentava negli ultimi anni, pascolava nei pressi della grotta da lui abitata, fu vista da un cacciatore (Sierio o Arcadio secondo la tradizione), il quale la feriva mortalmente con una freccia che le restava infissa al collo. La povera bestia, spaventata e inseguita dallo stesso cacciatore, si rifugiava nella grotta.
Il Santo, che stava assorto in preghiera, vistala in quello stato, le estrasse la freccia che le aveva trapassato il collo, e ne guarì immediatamente la grave ferita, con grande meraviglia del cacciatore, che riconosciuto il miracolo, gli si prostrò ai piedi chiedendogli perdono e convertendosi alla fede cristiana. Il Santo lo rassicurò amorevolmente, lo perdonò e lo esortò ad una vita migliore.
Aveva lavorato molto, pesavano sulle sue spalle gli anni e le fatiche apostoliche, i digiuni, le privazioni. Le diuturne penitenze l’avevano stremato. Aveva bisogno di riposo, sentiva vicina la fine. Il Santo si ritira finalmente nella diletta dimora del monte Kronio, per prepararsi al grande incontro con Dio. E fu questa la sua ultima tappa poiché il Buon Vecchio, ormai privo di forze, affranto dai lunghi e penosi travagli, serenamente rendeva l’anima a Dio, confortato dai suoi discepoli che ne raccolsero le parole estreme: “Laudate Deum” (Lodate il Signore Dio).
La morte l’aveva sorpreso, mentre in ginocchio pregava. In uno sfolgorio di luce, il Signore era venuto a raccogliere la sua anima per portarla nella gioia eterna della sua Casa. La tradizione ha tramandato quella data, il 18 giugno del 561 e vuole che fosse vecchio di 95 anni. Accorse gran parte del buon popolo di Sciacca e quello dei paesi vicini, per dire tutto il suo dolore, per venerare le spoglie esanimi e per tributargli le più grandiose onoranze.
Nella grotta del monte Kronio, dormivano nel sonno della morte i compagni martiri Gregorio e Demetrio, là portati dallo stesso Calogero. Vicino a loro fu collocata la salma del Santo Vecchio, perché fossero uniti in morte, coloro che lo erano stati in vita, e perché fossero oggetto della stessa venerazione.
Il sepolcro fu gelosamente custodito fino al sec. X, e cioè fino a quando per impedire la profanazione dei Saraceni, che dall’827 avevano incominciato ad invadere l’Isola, la pietà dei fedeli sottrasse le spoglie per nasconderle in un luogo sicuro. Furono portate infatti nel Monastero di Fragalà, detto di San Filippo, nei pressi di San Marco d’Alunzio (Messina). Ed il motivo fu determinato dal fatto che Sciacca veniva a trovarsi in una zona completamente arabizzata, mentre la Valle di Demenna o Val Demone, in cui ricadeva San Filippo di Fragalà era stata solo in parte islamizzata, praticamente era sotto il controllo cristiano.
Nel 1867 le spoglie del Santo furono portate nella Chiesa Madre di Frazzanò, paese distante 3 Km da Fragalà, sempre in provincia di Messina, dove attualmente sono venerate.